venerdì - 26 Aprile 2024
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Jonathan Bazzi, il mondo visto da Rozzano

Crescere da “diverso” nella città alla periferia sud di Milano: è l’ispirazione di “Febbre”, opera prima dello scrittore che ha appena vinto il premio Bagutta. “Torno spesso, qui è rimasto quasi tutto come prima”

A circa sette mesi dall’uscita, “Febbre” di Jonathan Bazzi continua a fare parlare per il linguaggio esplicito utilizzato nel raccontare la condizione dell’autore. Un’autobiografia sull’essere nato e cresciuto a Rozzano dai nonni perché mamma e papà, separati da quando aveva 3 anni, avevano una vita altrove; poi la solitudine, la scoperta dell’omosessualità, infine la sieropositività. Una vita difficile che Bazzi ha descritto senza remore, tanto da meritarsi diversi premi letterari. L’ultimo, in ordine di tempo, è il prestigioso “Bagutta”, sezione opera prima, che gli è stato consegnato oggi, domenica 26 gennaio. Pocketnews lo ha intervistato.

In quest’opera prima, è come se lei si fosse liberato di più pesi? E’ così?


“Per quanto riguarda Rozzano, sì. Da tempo, almeno dal 2012, sentivo la necessità di portare alla luce diverse situazioni che avevo attraversato, senza che potessi modificarle. E’ il tentativo di raccontare la Rozzano che ho visto io, fra gli anni Novanta del secolo scorso e l’inizio del Duemila. Non è l’intento di oggettività, è l’incontro fra la mia identità e il posto dove sono cresciuto, raccontandone cose nascoste o poco conosciute”.

Un altro peso?
“Sull’Hiv c’è la mia volontà di rifiutare un obbligo implicito, nel senso che le persone sieropositive tendono a nascondersi. Io non sono d’accordo su come viene vissuto questo aspetto nella società, voglio andare in tutt’altra direzione.”

Omosessualità, sieropositività, crescere a Rozzano. Qual è la gerarchia dei problemi che ha vissuto?
“Credo che l’essere cresciuto a Rozzano sia l’aspetto che mi ha causato maggiori problemi, non tanto per la città in sé, quanto per il contesto, le condizioni materiali, la mancanza di stabilità economica, la mia famiglia. Le cose che mi interessavano, qui erano tabù. Poi l’omosessualità, che mi sono trovato a dovere gestire fin quando ero un bambino fuori dai gusti consueti.  In ultimo metto l’Hiv, perché quando ho contratto la malattia avevo 30 anni e gli strumenti per affrontarlo.  Ci sarebbe un altro problema che lei non ha menzionato, però…”

Quale?
“La balbuzie. La cosa che mi ha più pesato nella vita è l’essere stato balbuziente per tanti anni. E, forse, ogni tanto lo sono ancora.”

Parliamone, allora.
“Molti bambini balbettano, però magari non ci fanno caso perché l’infanzia è sinonimo di leggerezza. Ma è nella fase dell’adolescenza che non si è più disinvolti e non si hanno gli strumenti per dare un peso diverso all’enorme ansia che ne può scaturire. Ricordo ancora la mia paura delle interrogazioni, non perché fossi impreparato ma perché temevo di balbettare.”

Com’è stato crescere a Rozzano negli anni Novanta?
“E’ stato molte cose insieme. Io sono cresciuto in una famiglia ammaccata. Dai 3 ai 10 anni ho vissuto con i nonni. Questa distanza da papà e mamma ha assunto connotati enormi, perché ho imparato a fare tutto da solo. Poi, a 20 anni ho iniziato a frequentare Milano. Le persone che frequentavo erano divertite o sconvolte dai fatti che narravo. Allora ho capito finalmente che quelle vicende che avevo vissuto non erano normali.”

Ma è davvero così lontana Rozzano da Milano?
“Sì e no. Quando mi muovo a Milano mi sento più a mio agio. Con le caratteristiche che mi ritrovo, in quanto riconoscibile come omosessuale, a Rozzano i commenti sparsi per i cortili erano all’ordine del giorno.”

Il pianeta maschile, in generale, è ancora machista, omofobo? O qualcosa sta cambiando?
“Credo che alcune cose stiano cambiando. Purtroppo ci sono ampie zone della società dove tutto si muove lentamente. I nuovi mezzi di comunicazione, tipo i social, stanno amplificando un certo tipo di educazione e sensibilizzazione verso questi temi. Certo,  in questo senso la famiglia fa moltissimo, perché i pregiudizi nascono e crescono proprio lì. Quando succede, è difficile che possano essere eliminati.”

Qual è stata la figura di riferimento in famiglia o fra gli amici?
“In generale le figure femminili: le mie nonne, mia madre, la zia. Con loro ho avuto un rapporto più stretto e ho trascorso più tempo, anche se sono stato un bambino piuttosto solitario, perché avendo vissuto con i nonni e degli giovani zii, non ero proprio al centro dell’attenzione. Non sono mancati i generi di prima necessità, ma sono rimasto solo nella comprensione del mondo.”

Nel libro si parla di sofferenza ma anche di amore. Qual è la sua concezione dell’amore?
“Ne ho una visione abbastanza assolutista, fin dall’adolescenza. Ho una storia che dura da sette anni, sfociata in convivenza. Per me la questione sentimentale è stata sempre al primo posto e spesso ho notato delle differenze con tanti amici che hanno fatto scelte differenti, tipo gli studi e il lavoro. Io invece ho dato sempre priorità all’amore, forse per una sorta di compensazione del tempo perduto in passato.”

Parliamo di tecnica letteraria: ha dichiarato, in un’intervista, che ama gli incipit. Come deve essere un buon incipit, togliendo gli stereotipi al riguardo?
“Cerco sempre di puntare sull’immagine. Creare cioè un’immagine forte come attacco, più che puntare su discorsi, riflessioni, frasi astratte. La concretezza è cercare di tratteggiare un’immagine, una scena carica di tensione che riesca ad andare da qualche parte. Poi occorre anche evitare il più possibile qualcosa di già visto e di già sentito. Comunque sì, inserire spesso tensioni è un aspetto della tecnica nel racconto che mi attrae.”

Sta scrivendo un altro libro? Qual è la sua giornata tipo quando è ispirato?
“Sì, ho iniziato da un paio di mesi a lavorare sul nuovo libro. Generalmente scrivo tutti i giorni, al mattino presto. Mi alzo più o meno alle 5,30 e già alle 6 sono davanti al pc fino alle 9/9.30.
Ci sono alcuni giorni in cui mi capita di riprendere le cose scritte come un momento di rilettura generale”.

Qual è il più bel complimento che le hanno fatto finora?
“Sono sempre felice quando mi fanno complimenti sulla scrittura, quando mi dicono di essere rimasti sorpresi dallo stile, sebbene in “Febbre” ci siano molte parti forti che prendono il sopravvento rispetto alla scrittura.”

Torna qualche volta a Rozzano?
“Sì, spesso torno a trovare gli affetti, mia madre soprattutto.”

Rispetto agli anni in cui ci viveva, è migliorata o peggiorata?
“Bah, io la trovo abbastanza uguale. In passato c’era una minore presenza di stranieri, negli anni è stata apportata qualche leggera miglioria architettonica, per il resto è lo stesso posto. Basta guardare lo sguardo delle persone che vanno e vengono sul tram numero 15 (quello che collega Rozzano con il centro di Milano, ndr), leggere le cronache sulla città, le case popolari. Le questioni sono rimaste le stesse.”   

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